Da San Sebastiano al Vesuvio parte un breve ma importante sentiero, un luogo che andrebbe rivalutato per la sua rilevanza storica e naturalistica ma che al momento langue nell’abbandono più totale.
Giunti a San Sebastiano, partendo dalla chiesa madre e percorrendo via Palmieri verso San Domenico, il Vulcano emergerà, man mano che si sale, tra i tetti delle case. A favore di luce, ci offrirà le splendide visioni primaverili del verde cangiante dei boschi del Somma, il grigio argenteo dei lecci e il verde intenso dei castagni. Da questo luogo, dove una volta sorgeva un convento di domenicani, si potrà raggiungere, attraverso via Casagnolella o, più su, per via Macedonio Melloni, la strada principale di via Panoramica Fellapane che sarà anche la nostra seconda opzione, se si vorrà più comodamente raggiungere il sentiero in auto.
Arrivati a monte di questa strada, a quota 320 m.slm., ci troviamo di fronte ad una sbarra (sotto l’Insegna di un ristorante) dove, lasciando l’eventuale vettura, iniziamo il sentiero. Il percorso non è lungo, andata e ritorno non raggiunge i 4 km ma risulterà impegnativo per la pendenza e il cattivo stato del terreno, soprattutto nella fase di discesa e considerate che allo stato attuale per quanto assai frequentato, ne è interdetta la fruizione. Risultano pertanto indispensabili scarpe e bastoncini da trekking. Un’alternativa potrebbe essere quella di percorrere in discesa lo stradello parallelo che inizia nei pressi del piccolo slargo a quota 550 in modo da evitare l’assai sdrucciolevole percorso dell’andata.
La prima parte del percorso, quello che parte dalla sbarra automatica e lunga circa 800 m, è in prevalenza asfaltata e, se si esclude un tratto di circa 200 m di bello ma inutile lastricato, attraversa placidamente gli appezzamenti coltivati a uva catalanesca (‘a catranesca), albicocche e pomodorini, gioie ancestrali degli orgogliosi contadini sansebastianesi. Purtroppo (avverbio sempre frequente all’ombra del Vesuvio) va detto che questo spazio, come tutta via Panoramica, è stato spesso soggetto all’incuria e all’inciviltà di chi, non potendo sfogare altrove le sue smanie ormonali, o non volendo smaltire secondo norma i propri rifiuti, ha impedito ai più di fruire liberamente e degnamente di uno spazio pubblico, ma questa è per fortuna storia vecchia e comune a tutta la sentieristica vesuviana e, grazie alla nuova sbarra elettronica, si è riusciti quanto meno a contenere in parte il fenomeno.
Salendo e volgendo lo sguardo verso l’alto, ammireremo, sulla nostra sinistra, lo splendido spettacolo della colata lavica del 1944 (anno dell’ultima eruzione). A giugno, la ginestra in fiore mostra che la dura roccia è stata ormai colonizzata dal lento e incessante lavoro di Madre Natura che supera anche le nefandezze nell’umana incuria e i danni del disastroso incendio del 2017. A destra, verso sud ovest si apre poi il panorama su Napoli e il suo golfo e, più in basso, invece, ci appare una discarica spesso scambiata per collina, la famigerata Ammendola & Formisano.
La fumarola
A quasi 400 metri d’altezza, imbocchiamo quindi il sentiero vero e proprio (il tratto in questione è nel territorio di Ercolano ma pare sia in parte di proprietà del comune di San Sebastiano), non prima però d’aver dato un’occhiata alla fumarola sulla nostra sinistra. Nelle fredde mattinate invernali o comunque quando il contrasto termico lo permette, potremo osservare le nuvolette di vapore che si sprigionano dalla piccola grotta allestita ad estemporaneo tempietto dai devoti del posto. Anche qui, come spesso accade dalle nostre parti, è nata una sorta di leggenda metropolitana concernente appunto l’origine della fumarola, relegandola a improbabile sfogo della vicina discarica dell’Ammendola & Formisano. Sarà che il Nostro non lo si vuol proprio vedere come vulcano e allo stesso tempo si vuol far di tutto alle sue pendici e senza per questo sentirsi in colpa e pagarne lo scotto ma la storia della discarica puzza sì, ma a valle della nostra ipocrisia e non certo lì. Del resto a definirla genuino sfogo di vulcanica natura vi son fior di vulcanologi come, non ultimo, Giuseppe Luongo, già direttore dell’Osservatorio Vesuviano (si veda tra l’altro il volume “Due giorni al Vesuvio – Guida vulcanologica del Parco Nazionale del Vesuvio” pagg. 94-95 e quanto dichiarò al sottoscritto in un’intervista a ilmediano.it nel febbraio del 2011).
Inoltrandoci nel sentiero ci accorgiamo subito della presenza di frane dovute al fatto che, il tratto iniziale di questa frazione di sentiero, corrisponde a un canalone, soggetto quindi ai flussi delle acque piovane. Però anche l’incuria, dovuta alla mancata manutenzione delle pur valide opere d’ingegneria naturalistica, contribuiscono alle attuali condizioni in cui versa il percorso naturalistico. Al primo spiazzo si svolta quindi a destra e si continua a salire fino a quota 426m, dove, svoltando ancora a destra, si arriva sull’antico percorso del trenino a cremagliera.
Il Trenino a Cremagliera
A questo punto vale la pena aprire una parentesi anche sul tragitto e le modalità che ne caratterizzavano il percorso e che subì notevoli modifiche nel corso della sua storia e sul quale, ancora oggi, esistono errori ed equivoci riportati sui “social”, da alcuni siti poco attendibili e dallo stesso ente parco che ha posto lungo questo sentiero una bella ma fuorviante cartellonistica che illustra la storia di una funicolare mai passata in questo luogo. Per quel che concerne infatti la funicolare, spesso confusa col trenino della Ferrovia Veuviana, tutto ebbe inizio nel 1880 con l’apertura al pubblico del tratto di funicolare sul Gran Cono e termina, con la sua distruzione definitiva, durante l’eruzione del 1944. Il tratto propriamente detto ”a cremagliera” era invece compreso tra le stazioni Centrale/Deposito (l’attuale restaurata e abbandonata “Stazione Cook”), nella zona Lave Novelle ad Ercolano (‘ncoppa ‘e Nuvene come ricorda qualche anziano del posto) e l’Eremo, e durò con alterne vicende fino all’apertura della Strada Provinciale nel 1953. Gli altri tratti della Ferrovia Vesuviana (da non confondere con la Circumvesuviana) erano alimentati anch’essi, come quello a cremagliera, dalla rete elettrica che nasceva appunto da suddetta centrale elettrica e costituivano un’unica strada ferrata che da Piazza Pugliano arrivava fino alla stazione inferiore della funicolare. I treni elettrici, provenienti dalla stazione di Pugliano venivano agganciati ad una potente motrice che sospingeva le carrozze lungo il dislivello (intorno al 20%) fino alla stazione dell’Eremo, presso l’omonimo hotel e punto di ristoro costruito nel 1902 dalla Cook & son, artefice principale di tutta la linea ferroviaria che, unendosi alla Circumvesuviana, metteva in collegamento il capoluogo partenopeo con il Cratere.
Dall’Eremo in poi le carrozze, svincolate dalla motrice a cremagliera, proseguivano, sempre ad energia elettrica, ma con forza propria, fino alla stazione inferiore della funicolare dove i passeggeri, cambiando tipo di carrozza salivano verso la sommità del Cratere, su di una vettura trainata da funi d’acciaio e per un tragitto di 750 m. a seconda delle epoche e dei rifacimenti. Il tratto Eremo-Stazione Inferiore, è ancora identificabile in un quasi pianeggiante sentiero a monte della riserva del Tirone/Alto Vesuvio e che arriva presso l’attuale “Belvedere”. Questo tratto, chiamato erroneamente sentiero del Trenino a Cremagliera, non va però assolutamente confuso con il sentiero n°8, oggetto di questo nostro articolo; è difatti proprio questo a seguire il tratto più ripido, dove il treno, oltre ad essere sospinto dalle motrici era anche agganciato da queste in discesa, tramite una ruota dentata, detta pignone, che seguiva il tragitto di una rotaia anch’essa dentata, la cremagliera appunto, quella che lo tratteneva frenando le carrozze ed evitando in tal modo che queste slittando rovinassero a valle; cosa che malauguratamente accadde nel 1934 sul tratto Eremo-Stazione Inferiore, presso l’Osservatorio e anche quando la funicolare nel 1910 precipitò sempre su di una carrozza della Ferrovia Vesuviana, procurando in entrambi casi morti e feriti.
Ciò che più colpisce è il fatto che già nel 1913, i turisti che si trovavano a Napoli, potevano, in poco tempo, raggiungere il Vulcano, abbastanza comodamente ed esclusivamente su strada ferrata, cosa che oggi appare, se non impossibile, di difficile realizzazione o soggetta a mistificazioni pseudo-ambientaliste.
Tornando alla natura, evitando la deviazione sulla sinistra percorsa spesso dai cavalli di chi fa turismo equestre, si prosegue ancora dritto verso quota 461 m, dove troveremo, sulla nostra destra (rovi e vegetazione stagionale permettendo), uno scorcio panoramico sulle città di Portici ed Ercolano. Continuando la salita, a 550 metri e dopo 1,63 km giungiamo alla meta dell’itinerario, presso uno spiazzo una volta ombreggiato da alcune robinie e che oggi si apre invece in una grande radura, qui troviamo un pozzo e un ponte, risalenti al sistema idraulico borbonico (quello che captava le acque piovane e ne rallentava il flusso a valle), e due sentieri a monte, uno è il sentiero n° 9 che porta alla colata del ’44 (SX), l’altro (DX) ci porterà invece, attraverso un breve tratto di bosco, sulla provinciale del Vesuvio, nei pressi dell’Eremo e della sede storica dell’Osservatorio Vesuviano. Ora non ci resta che decidere se ridiscendere il sentiero (volendo si potrà scendere lungo il tratto parallelo assai frequentato da chi va a cavallo, più agevole, o imboccare il numero nove per incrementare l’emozione di questa nostra escursione.